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Il progetto è ambizioso: portare la chianina a Novi Sad. Lo studio di fattibilità e la sperimentazione saranno realizzati, con il cofinanziamento congiunto della Regione Umbria e della Provincia della Vojvodina, grazie alla collaborazione tra il Dipartimento di Scienze della produzione animale dell’Università di Novi Sad, la Scuola superiore di zootecnia di Futog, l’Associazione italiana allevatori, l’Associazione provinciale allevatori di Perugia, l’Università degli Studi di Perugia e 3A Parco Tecnologico Agroalimentare dell’Umbria. Il progetto intende porre le basi per la cooperazione tra le due Regioni nel settore agroalimentare ed in particolare nel settore zootecnico partendo proprio dal programma: “Introduzione nella Provincia della Vojvodina della chianina come razza bovina incrociante”. Nell’ambito della missione, che ha registrato una serie di incontri e visite ad aziende zootecniche della Vojvodina, sono state gettate le basi per la sperimentazione dell’allevamento di vitelli meticci e per una cooperazione scientifica e didattica tra esperti nel settore zootecnico.
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Non lo diciamo, ma lo sappiamo: siamo in tempo di austerity. E quale miglior regalo da fare e da farsi, di questi tempi, se non un investimento enogastronomico di prodotti tipici? Coldiretti stima che gi italiani acquisteranno per Natale prodotti alimentari tipici per un valore di circa 2 miliardi di euro. Mentre uasi due italiani su tre acquisteranno regali utili mentre solo il 7% rinuncerà al cibo natalizio se sarà costretto a ridurre le spese, secondo un recente sondaggio Swg, nonostante i rincari. Senza dimenticare che quest’anno si prevede che nove italiani su dieci trascorreranno la vigilia e il pranzo di Natale in casa, con parenti e/o amici con in tavola un menù della tradizione.
Sono 4372 i prodotti agroalimentari italiani ottenuti secondo regole tradizionali antiche tramandate nel tempo che – precisa la Coldiretti – si aggiungono ai 164 prodotti a denominazione di origine Dop/Igp (oltre il 20 per cento del totale riconosciuto dall’Unione Europea) e ai 469 vini a denominazione di origine controllata (Doc), controllata e garantita (Docg) e a indicazione geografica tipica. Ad essere preferiti sono i vini, i formaggi, i salumi, gli oli di oliva e legumi, frutta secca ed altri prodotti con una netta impennata per i prodotti tipici del Natale come gli spumanti, le lenticchie, zamponi e cotechini la cui produzione viene assorbita quasi completamente durante le feste di fine anno. Molto diffusi sono gli omaggi raccolti nei tradizionali cesti di vimini dove si privilegiano prodotti a più lunga conservazione come i salumi più pregiati (dal Parma, al San Daniele, al Culatello di Zibello), cotechini o zamponi di Modena o soppressate calabresi. Tra i formaggi faranno bella mostra di sé il parmigiano reggiano, il grana padano e il pecorino sardo o altri formaggi tipici come i caciocavalli silani e il provolone. Molto apprezzato è l’olio extravergine d’oliva in suggestive bottiglie da 0,75 litri con etichette che garantiscono provenienze e metodi di lavorazione. Non mancheranno poi una miriade di confezioni in busta o sacchetto dove vengono offerti legumi come i fagioli (ricordiamo quelli di Lamon, di Sarconi e di Sorana), lenticchie (quelle del Castelluccio di Norcia) frutta secca (le pregiate nocciole di Giffoni o del Piemonte) e cereali (come il farro della Garfagnana) e il riso vialone nano veronese.
Per rispettare la tradizione senza cadere nelle trappole del mercato, il modo migliore è di acquistare prodotti tipici direttamente nelle aziende agricole nelle zone di produzione dove peraltro spesso durante il periodo natalizio sono previste iniziative con mercatini per far conoscere direttamente le caratteristiche e i metodi di produzione ed è anche possibile fare a prezzi più convenienti.
Delle 48.650 imprese agricole nazionali che svolgono attività di vendita diretta dei propri prodotti quasi una su quattro (23,8 per cento) – conclude la Coldiretti – partecipa a mercati e fiere locali sopratutto in occasione delle festività come il Natale.
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Gli antichi non a caso la chiamavano vite. Un nome che da anche il senso della vita. E da quuesta preziosa pianta ricca di proprietà oltre ad estrarre il vino, bevanda, sanissima e curativa a dosi modeste si scopre oggi che ha anche delle altre proprietà: dall’estratto dei semi d’uva una possibile alternativa naturale per la conservazione dei cibi surgelati e precotti: questo il risultato di uno studio condotto da Susan Brewer dell’University of Illinois, pubblicato sul Journal of Food and Science. Per anni l’industria alimentare ha usato ingredienti sintetici per rallentare l’ossidazione dei grassi e preservare dunque la qualità delle carni in questi prodotti, ma le ricerche di Brewer sembrano suggerire che alcune componenti dell’estratto di semi d’uva possiedano le stesse, se non più marcate, caratteristiche. La ricerca è dunque partita sperimentando l’efficacia di rosmarino, origano e appunto estratto di semi d’uva, in diverse concentrazioni, per una diversa durate e a diverse temperature su una gamma di prodotti contenenti carne di maiale e manzo. “I risultati sono stati sorprendenti: alte concentrazioni di semi d’uva erano a volte più efficaci dei prodotti sintetici e, a differenza di origano e rosmarino, non hanno prodotto modifiche nel sapore, gusto o odore dei cibi”.
Lo studio è tutt’ora in corso e si cerca di comparare sotto tutti gli aspetti gli agenti sintetici con quelli naturali. “Penso davvero che l’estratto di semi d’uva sia un’alternativa fattibile. Inoltre il suo utilizzo – ha concluso Brewer – gioverebbe alle aziende e leverebbe a noi consumatori un po’ di quel senso di colpa che ci viene dal non cucinare più”.
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Volendo l’energia prodotta da biomasse potrebbe già essere disponibile. Ne producono in grande quantità Sicilia, Veneto, Lombardia e Piemonte e potrebbero alimentare 130 centrali elettriche per soddisfare fabbisogni termici . Praticamente, con solo centomila tonnellate annue di residui ligno-cellulosici provenienti da colture erbacee ed arboree sarebbe possibile alimentare una centrale termoelettrica da dieci mega watt.
Dai dati diffusi dall’associazione degli esperti di biomasse Itabia e dall’Unione nazionale costruttori di macchine agricole, Unacoma, è emerso che le disponibilità di residui agricoli che potrebbero essere sfruttati per produrre energia pulita ammontano a poco meno di quindici milioni di tonnellate annue da cui sarebbe possibile recuperarne almeno otto milioni per usi energetici.
La regione italiana che possiede il potenziale di biomasse più alto è la Sicilia con quasi due milioni di tonnellate annue, seguita dal Piemonte, dal Veneto e dalla Lombardia che producono oltre un milione di tonnellate annue ciascuna.. Attualmente le biomasse disponibili, in Italia, potrebbero alimentare centotrenta centrali elettriche da dieci mega watt e l’energia potrebbe essere impiegata in impianti di termoriscaldamento, per soddisfare esigenze termiche e di acqua calda di 4 milioni di abitazioni di cento metri quadri di superficie.
In Italia, i residui agricoli, non sono utilizzati adeguatamente per la mancanza di macchinari specifici per la raccolta, il trasporto e il trattamento della materia prima.
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Alcuni giorni fa, esattamente a san Nicola, cioè il 6 dicembre un nutrito gruppo di imprenditori agricoli, circa 1500 hanno manifestato davanti alla sede della Regione Marche, restituiendo simbolicamente le chiavi delle proprie aziende agricole. Hanno denunciato uan grave crisi di filiera. Ma di fatto, cosa è successo all’agricoltura marchiagiana? Gli addetti ai lavori, gli agricoltori cioè, parlano di un “decalogo di orrori”.
“Un elenco lungo che nasce dalla volonta’ del mondo politico di rifiutare il metodo della concertazione con la rappresentanza – ha spiegato Giannalberto Luzi, presidente di Coldiretti Marche- enumerando le anomalie- La legge sulla vendita diretta e’ stata bloccata, mentre potrebbe portare vantaggi ai cittadini contro il caroprezzi; il paesaggio, sepolto sotto milioni di metri cubi di cemento; la tentata demolizione del Piano di sviluppo rurale; l’incapacita’ di gestire efficacemente la risorsa acqua che le anomalie climatiche stanno mettendo a rischio, con il riordino della bonifica”.
Tra gli “orrori” del decalogo illustrato agli imprenditori presenti, Luzi ha ricordato anche “il decentramento che, frutto di un accordo politico e non di una precisa strategia, e’ destinato a non produrre ne’ semplificazione ne’ valore aggiunto; le inefficienze delle filiere agroalimentari, i cui costi finiscono per gravare sulle spalle delle imprese agricole e dei cittadini; la promozione che sfrutta i prodotti tipici senza portare effettivi risultati economici; il problema dei danni alle imprese e dei rischi per i cittadini causati dai cinghiali; il Patto per lo sviluppo dove non ci sono risorse; il marchio Qualimarche che non assicura il legame col territorio e non ha neppure risorse”.
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